Carissimi confratelli, fra i primi ricordi di bambino che conservo vi è l’incontro con don Giuseppe Vavassori, chiamato don Bepo. Ci aveva portato il papà. Ricordo che dall’orologio a cucù, appeso al muro, uscivano caramelle e confetti. Ancor più ricordo la devozione del papà e la sua emozione nell’incontrare quest’uomo che, a distanza di tempo, ho capito essere stato fondamentale per la sua vita a tal punto da segnarne i tratti principali. D’altra parte aveva quotidianamente condiviso con lui i primi 18 anni della sua vita. Don Bepo, di cui è stata avviata la causa di beatificazione, mio padre lo considerava suo padre. Nel 1927, su un terreno dismesso nella periferia di Bergamo, iniziò la sua opera di accoglienza di ragazzi raccolti da famiglie a pezzi. Ne accolse oltre cinquantamila. Tra questi mio padre. Come don Bosco disse Se ho fatto qualcosa di bene, lo debbo a don Cafasso1, mio padre disse: Se ho fatto qualcosa di bene, lo debbo a don Bepo.
Perché vi racconto questo? Qualche giorno fa, stando dinanzi alla tomba di mio padre, ho ripassato quel poco che so della sua storia d’infanzia cogliendo nella paternità donatagli da un prete uno dei doni più preziosi per la sua esistenza, una sorta di defibrillatore che l’ha salvato proprio nei momenti in cui il cuore era in panne per astinenza di paternità. Ha fatto eco a questi miei pensieri don Beppe Roggia che, predicando gli esercizi spirituali ai confratelli più giovani a Vittorio Veneto, ha detto: Devo verificare come personalmente sto maturando nella mia paternità spirituale nei riguardi dei giovani attraverso l’accompagnamento personalizzato. La paternità è il compito fondamentale della vita consacrata fin dai tempi dei monaci del deserto. Questo è il punto. Se non maturo in questa paternità, la mia vocazione consacrata e salesiana rimane solo abbozzata ma non realizzata. Non è possibile realizzare pienamente la propria vocazione senza sentirsi ed essere veramente, profondamente padri. I giovani hanno bisogno di avere accanto dei padri che vivono questa paternità profonda per divenire a loro volta padri. Stando a queste parole dovremmo ogni tanto fare uno scrutinium paternitatis per misurare la temperatura della nostra paternità e scoprire dove nella pastorale vi sono emorragie di paternità.
Don Rinaldi ha definito la paternità come la tradizione più importante e vitale per noi. Così scrive rivolgendo a Ispettori e Direttori parole che valgono per tutti noi: Vi scongiuro nelle viscere della carità di Nostro Signore Gesù Cristo di far rivivere in voi e intorno a voi la tradizione della paternità spirituale che purtroppo va spegnendosi. [...] Siate veramente padri dell’anima dei vostri giovani. Non abdicate alla vostra paternità spirituale, ma esercitatela!
Come ci si sente figli quando c’è un padre, così ci si sente fratelli quando c’è un padre. La fraternità ha bisogno di padri: credo sia questa una delle vie preferenziali da intraprendere per rafforzare la fibra delle nostre comunità. Don Beppe Roggia negli esercizi spirituali ha proseguito dicendo: La comunità è a tutt’oggi la grande malata della vita consacrata. Dalla comunità giuridica, in cui si sta insieme per obbedienza, si deve passare ad una comunità di fraternità. Se nel passato la comunità giuridica teneva, oggi, siamo onesti, non tiene più. Ci può aiutare in questo passaggio proprio la paternità vicendevole dato che, scrive don Rinaldi, spetta a tutti la paternità e tutti siamo tenuti a conservarla viva nei nostri cuori e nelle nostre opere.
La paternità solamente giuridica è sordomuta, crea incomunicabilità e deserti affettivi, non genera fraternità. Paternità è saper arpeggiare i sentimenti del figlio dopo averne colto le corde, è accoglienza incondizionata perché un padre non si sceglie il figlio che la vita gli da, è l’anima dell’ecosistema vocazionale, è l’argine della disidratazione affettiva, è quello sguardo che, come un apriscatole, sa aprirti il cuore anche quando è avvinghiato dalle catene della paura. La paternità è l’anelito interiore che più d’altri ci pervade. Si radica in Dio, Padre per antonomasia. È un anelito che ci abita e che ci inquieta facendoci vagare, assetati, alla ricerca del senso dato che il desiderio di avere un figlio è il desiderio di trovare un motivo per cui dare la vita4. C’è in ballo il nostro essere uomini. Noi diventiamo maturi quando il desiderio di generatività che ci abita non rimane un buon pensiero ma diventa carne della propria carne, sangue del proprio sangue. Lasciamo che i giovani possano cuocere nel forno delle loro richieste i nostri aneliti di paternità affinché diventino pane per il loro desiderio di figliolanza. Se la paternità non lievita, la parola “figlio” si spoglia. Lavoriamo perché nell’anagrafe della vita non si scriva mai “orfano”.
Vi scongiuro... la paternità!, scrisse don Rinaldi. Questo appello accorato è un invito a conoscere personalmente i giovani e le persone che incontriamo nella missione. I proclami dall’ambone, dall’altare, dai bollettini, i siti, i profili social parrocchiali scorrono via come le pagine digitali sullo schermo del cellulare. La sfida è nel ritornare al rapporto uno-ad-uno con la persona. Allo stile di Gesù. [...] Tutto a tutti in forma indifferenziata non funziona più5. Recentemente un giovane di una nostra opera si è laureato e nei ringraziamenti contenuti nella tesi ha scritto: Ai salesiani per avermi accolto come figlio, a Luigi6 per essermi padre, maestro, amico. Queste parole ci fanno cogliere che la paternità vissuta nel quotidiano non può essere un impegno collocato nell’agenda, quanto uno stile di vita delle nostre comunità la cui assenza prosciuga, un po’ alla volta, anche i fiumi educativi più copiosi.
Un’ultima cosa. Il 21 febbraio è andato in paradiso don Sergio Dall’Antonia, uno dei pionieri della presenza salesiana in Romania. Queste parole del nostro giovane confratello Iosif Tulbure ci fanno toccare con mano che la principale elemosina elargita da don Sergio è stata quella della paternità. Di fronte all’immagine di don Sergio resto in un silenzio contemplativo e piango, piango perché sento che dentro di me germoglia un seme di bontà ogni qual volta me lo immagino. Piango e ringrazio Dio che mi si è fatto presente attraverso la persona di don Sergio. A pensarlo mi commuovo perché è il don Bosco della Romania. Da lui ho imparato la gratuità, la preghiera, la potenza di un sorriso, l’attenzione ai poveri, la dedizione al lavoro. Ha saputo regalarci il suo cuore, donarci la gioia e insegnarci la semplicità della felicità. Una caramella, un disegno, una figurina di gesso oppure un aquilone. Don Sergio è stato un nonno, un padre, un maestro ed un amico di tanti ragazzi che non avevano un nonno, un padre, maestri o amici. Ieri don Rinaldi, oggi la vita di don Sergio. L’appello è sempre lo stesso: Vi scongiuro... la paternità!