24/05/2024

Maria

Trieste, 24 Maggio 2024

Maria,

spero che non ne abbiano a male i confratelli se in questo mese mi rivolgo direttamente a te. Lo faccio un po’ perché siamo nel mese di maggio, un po’ perché oggi ti ricordiamo come Ausiliatrice e un po’ perché ho alcune cose da dirti con confidenza deponendole, come un piccolo mazzo di fiori di campo, ai piedi di quel solitario e consumato Crocifisso che ci attende, assieme a te, negli incroci della vita.

Ti ho conosciuta da piccolo come Addolorata. Eri vestita tutta di nero e avevi sette spade nel cuore. Rappresentano i tuoi sette dolori, la Via Matris che, al pari della Via Crucis, ripercorre le tappe delle tue sofferenze. Una volta all’anno ti portavamo a spalla per le vie del paese e al tuo passaggio anche i bestemmiatori più esperti si facevano il segno della croce, chinando il capo per vergogna. Da bambino mi spiaceva vederti triste e mi chiedevo se ci fosse qualche modo per poterti consolare. Ora, dopo aver percorso un po’ di strada ed esser più volte inciampato, comprendo che il dolore è una forma dell’amore e che la consolazione non è mai abbastanza, specie quando i tormenti non riescono a trovare un senso. Credo che in quegli anni ho imparato che contro il nulla devi dare tutto, che la morte si arrende dinanzi alla compassione di una madre, che la speranza picchetta la sua tenda ai piedi di ogni croce e ai piedi di ogni bestemmiatore.

Cara Madre, lo sai meglio di me e di tutti noi: la vita riserva le gioie di Cana e le Beatitudini della Galilea, così come lo smarrimento per aver perso Gesù e il disorientamento tra le vie di Gerusalemme che portano al Getsemani, luogo in cui la pace degli ulivi è tutt’uno con il dramma del tradimento. In queste trame della vita la tua presenza discreta si rivela capace di una fedeltà lottatrice che noi vorremmo fosse anche nostra. San Giovanni nell’Apocalisse ti descrive come una donna vestita di sole. È un segno grandioso (Ap 12,1) che ancor oggi continua a nutrire la nostra speranza messa alla prova dall’altro segno dominante nel cielo: un drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi (Ap 12,3). In cielo vi è una scena infernale. Il drago rosso vuole rubare il firmamento, vuole conquistare il Paradiso, vuole divorare il bambino (Ap 12,4) che tu stavi per partorire. Nel cielo, luogo per antonomasia di pace e quiete, scoppia una guerra. L’arcangelo Michele con i suoi angeli combatte il drago, vincendolo (cf. Ap 12,7-8). Il bambino è salvo. La speranza vive dove si è disposti a combattere.

Maria, tu ci insegni che il cielo, anche quello interiore, custode dei desideri più cari e nobili, può divenire un campo di dura battaglia. La vita cristiana è bellezza ma anche lotta, è fascino ma anche combattimento, è grazia ma anche duello fino all’ultimo sangue per sradicare il male. Vederti come esercito schierato interpella la nostra capacità di lottare per difendere il cielo di ogni uomo, e in particolare il cielo dei giovani, da chi lo vuole inquinare. La battaglia con il male non è un fatto relegabile al passato, ma è qualcosa che sta accadendo ora. Ora ci vogliono saccheggiare il cielo. Ora. Il drago che vuole scipparci il cielo si chiama egoismo, disonestà, indifferenza,

giudizio, invidia, maldicenza, gelosia, incapacità di desiderare, pessimismo, guerra, potere. Maria, tu ci insegni che il cristianesimo si vive in trincea, in prima linea e non nelle retroguardie ove l’unica preoccupazione è quella di non avere problemi. Con la tua testimonianza ci ricordi che il buon Dio non ha detto di essere il miele della terra, ma il sale. Il sale, su una pelle a vivo, è una cosa che brucia, ma le impedisce di marcire1. Maria, tu sei audace, coraggiosa, lottatrice. Sei sale più che miele, resistenza e non resa, agguato e non ritirata.

Allo stesso tempo ci insegni che c’è un momento in cui bisogna accettare la vita com’è e non come noi la vorremmo. Una accettazione che è squarcio sull’inedito. Così è stato per te. L’angelo a Nazareth non ti ha assicurato che tutto sarebbe andato bene e fin da subito si è colto che la poesia dell’annuncio era tutt’uno con la fatica del suo compiersi. Dio non ci ha promesso una vita dove tutto si risolve. La fede non è una vacanza a cinque stelle e neanche una scalata in sicurezza. Dio ci ha promesso l’amore ma amare è voce del verbo morire, diceva don Tonino Bello. Certi ceffoni che ci prendiamo dalla vita hanno il compito di raddrizzarci dall’illusione e dalla smania di poter cambiare la vita stessa mentre è la vita, in realtà, che cambia noi. Il Signore non ci ha promesso una vita comoda. Ci ha assicurato una vita dove imparare ad amare e, spesso, stare alla cattedra dell’amore significa accettare ciò che è scomodo, attraversare il deserto, trangugiare qualche amarezza, ammettere di aver sbagliato. Ai piedi della croce tu divieni Madre della Chiesa, proprio lì dove il sogno di Dio sembra trafitto per sempre. Piangi ma non disperi.

Maria, aiutaci a comprendere che la debolezza e la mancanza possono essere eccedenza, spinta, forza, trascendenza, plus e non deficit. È una cifra fondamentale del magistero di Gesù: valorizzare la mancanza non come afflizione ma come eccedenza.2 Insegnaci a desiderare ciò che ci manca, a fare in modo che la precarietà e la povertà di quello che siamo diventi l’occasione per mettere nelle mani di Gesù i pochi pesci e pani che abbiamo. Maria, aiutaci a cogliere in quei travagli che non ci lasciano in pace e che tolgono ore al sonno, la meraviglia per il nuovo che sta nascendo e l’azione misteriosa del Padre. Aiutaci ad avere pazienza perché l’urgenza usura il tempo.

Per attuare tutto questo, abbiamo bisogno di sostenerci vicendevolmente. E allora insegnaci a rapportarci tra noi, a volerci bene nonostante tutto, a capire che ciò che non è condiviso diventa diviso e divisivo. Tutti vogliamo comunità più fraterne, ma cosa siamo disposti a dare affinché siano tali? Cosa siamo disposti a perdere? Lo sappiamo: non esiste un software per le relazioni. Esistono il coraggio del primo passo, la fiducia, la forza di un volto che ama. La capacità di stare tra noi è una questione di radicamento in Dio e di umanità. Ci si umanizza a contatto con l’umano, con le persone concrete, lì dove esse vivono, nelle periferie fisiche ed esistenziali, senza tirarsi fuori in nicchie protette.3 Maria, ricordaci che non si cessa di essere uomini per il fatto di essere monaci4.

Un’ultima cosa. Lo dico con questo racconto di mia sorella Emanuela. Ieri a pranzo Filippo mi ha raccontato un aneddoto di sua figlia (una delle 4). Stavamo parlando della saggezza dei bambini. Mi ha condiviso lo scambio tra loro due: “Papà, ma quando Dio ha creato il mondo, aveva gli occhi chiusi o aperti?”. Siccome non aveva una risposta, Filippo le ha chiesto: “Secondo te?”. E lei: “Aveva gli occhi chiusi, perché voleva farsi sorprendere dal risultato”. Guardando a noi, possa sorprenderti anche tu, Maria.

 

don Igino Biffi

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1 Cfr. Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, Mondadori 1989, p.11.

2 Massimo Recalcati, in“la Repubblica” del 16 maggio 2024, p.28.

3 Fabio Ciardi, Offrire un volto più umano alla vita consacrata, p.287 in Rivista Claretianum ITVC, n.s.14, t.63 (2023).

4 Marcel Raymond, Tre frati ribelli. Storia e avventura dei fondatori dei monaci bianchi, San Paolo 2006, p.190.